Gli uomini del sorriso

Raccontare la società, con il sorriso. Scrivere per far sorridere e attraverso una risata, far comprendere quanto sia “buffa, ironica, a volte, stupida la vita”.
Trasferire il testo su un set e animarlo con attori, scenografi, costumisti, tecnici luce e audio, e tutti quelli che il cinema lo fanno fisicamente. Perché il cinema non è di nessuno, è di tutti ed è un lavoro collettivo, condiviso.
Al Castiglioni Film Festival ci sono due “giganti” a dire cosa è il cinema e come si fa: Enrico Vanzina e Maurizio Mattioli. E la sera sotto la torre del Cassero prende le sembianze di una nave che salpa per un viaggio entusiasmante nella storia della commedia all’italiana.
Si parla di lavoro ma anche di vita, circostanze, dolori, ricordi, cicatrici. Il regista e l’attore lo fanno mostrando l’umanità e soprattutto l’umiltà che non ti aspetti dai cosiddetti vip, sempre un po’ distaccati dal ‘popolo’.
Non è così, e la distanza tra protagonisti e spettatori si annulla sul red carpet “all’incontrario”, cioè disteso sotto le sedie destinate al pubblico, non alle star. Un dettaglio non irrilevante in questa edizione del festival che cambia pelle con la direzione artistica di Romeo Conte. E il fatto che un paese di provincia dedichi una rassegna cinematografica alla commedia, per Vanzina ha un valore perché “la provincia italiana è linfa per il cinema. La vita vera è qui, non nelle città ormai ridotte a un calderone di vicinanze senza identità. Nella provincia resiste quel senso della bandiera, del campanile che talvolta può essere un limite, ma è comunque molto importante”.
Il cinema non era nei suoi piani, o almeno in quelli di sua madre, funzionaria al ministero degli Esteri: Enrico Vanzina avrebbe dovuto essere ambasciatore e fu spedito a studiare all’istituto francese Chateaubriand a Roma dove prese una “cotta” per la cultura d’Oltralpe, al punto da proseguire gli studi universitari alla Sorbonne. I
l ’68 delle contestazioni convinse la madre a farlo rientrare a Roma ma “lei fu punita perché mio padre mi chiamò a fare il primo film. Così, anzichè ambasciatore, sono finito a fare l’aiuto regista in un film di Buzzanca, ma è stata la mia fortuna”.
Il padre è Steno (al secolo Stefano Vanzina), uno dei più grandi registi del dopoguerra, che dapprima ostile al fatto che i figli Enrico e Carlo intraprendessero il suo stesso mestiere, mise alla prova Enrico incaricandolo della sceneggiatura di “Febbre da cavallo” e “quando lesse la scena del processo a Gigi Proietti davanti al giudice Adolfo Cieli, mi disse: tu da grande farai lo sceneggiatore. Ho cominciato lì il cinema”.
Toccante il ricordo del fratello Carlo che iniziò come aiuto di Mario Monicelli e di un legame di famiglia che va oltre lo spazio temporale: “Mi considero parte di un ristorante che si chiama ‘Steno, Carlo, Enrico’. Ora non c’è più Steno, non c’è più Carlo, ci sono io e per senso di responsabilità, affetto, destino, continuo a mandare avanti questo ristorante usando la stessa lista, perché papà diceva che i migliori ristoranti sono quelli che non cambiano mai lista”.
C’è un passaggio privato che il regista condivide con il pubblico, carico di sofferenza e nostalgia, toccando le corde più intime. “Mio fratello ha avuto una vita meravigliosa e me lo ha detto prima di andarsene. Lui diceva: preferisco il cinema alla vita, perché nel cinema c’è spesso il lieto fine, nella vita quasi mai”.
Enrico lo ha provato sulla pelle quando il figlio Marco ha “avuto un incidente stradale terribile, finendo in coma. Ricorderò sempre quella sera di Natale: pioveva e stavo salendo le scale del policlinico per andarlo a trovare. C’era un silenzio surreale, mio figlio stava in corsia con altre tre persone. All’improvviso sento delle risate provenire dalla sua stanza. Non c’erano tv in ospedale e io gli avevo fatto avere un piccolo videoregistratore collegato a uno schermo. Quando sono arrivato da lui, ho visto che rideva insieme agli altri mentre guardavano il mio primo film ‘Vacanze di Natale’. Loro ridevano e intorno c’erano la tristezza e la morte. Quello è stato il più grande successo della mia vita. Il cinema è questo”.
La lunga amicizia con Gigi Proietti è un altro capitolo del libro su mezzo secolo di storia del cinema, scritto a più mani ma vissuto fino in fondo e sulle montagne russe di carriere costruite partendo dalla gavetta. “Gigi era strepitoso. Ho lavorato con moltissimi attori italiani e stranieri, ma tra i primi tre c’era lui. Gigi riusciva a mettere a proprio agio gli attori, come fa un direttore d’orchestra capace di dare tono e velocità giusta. Un attore tecnicamente superiore ma con il grande rimpianto di non aver mai potuto fare il cinema come avrebbe voluto”.
Maurizio Mattioli parla di Carlo Vanzina, Gigi Proietti e Franco Califano, amici di una vita, con la voce spezzata dalla malinconia del distacco, dopo anni insieme a correre sui sali-scendi della vita. Anche lui viene dalla gavetta e prima di stare davanti alla macchina da presa, ha fatto mille mestieri per campare. Conosce il valore della fatica e rimarca che non esiste l’attore comico, esiste “l’attore e basta”.
Dal set al palcoscenico dei teatri passando per le fiction tv: in questa sera carica di pathos, regala emozioni che rievocano un pezzo di società nei suoi vizi, nelle sue maschere e nelle sue contraddizioni.
La commozione sale alle stelle quando Mattioli intona l’evergreen di Gino Paoli “Sapore di sale” rendendo omaggio all’omonimo film cult dei fratelli Vanzina. “Un modo per celebrare l’opera di Carlo ed Enrico”, chiosa con il groppo in gola. Una sera di luglio, immersi nella magia del cinema. Tutto il resto, non c’è.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here