Al lavoro tra la vita e la morte

Come si sta in un reparto di Rianimazione? Che mondo è? Qual è il rapporto tra medici, infermieri e pazienti?

L’emergenza Coronavirus vissuta da chi sta in trincea, ogni giorno. Roberto Bindi è il coordinatore della Terapia Intensiva dell’ospedale San Donato di Arezzo e racconta cosa accade “nella terra di confine”

Un girone dantesco: non è il Paradiso ma l’Inferno. Se non si è abituati o ci si vive gran parte della giornata lavorando per ridare vita a chi rischia di perderla, può sembrare questa l’immagine. Tubi, macchinari che suonano, fili a chilometri, respiratori che battono il tempo come un metronomo e tutto l’armamentario per “accomodare” ciò che nel corpo di un uomo o di una donna si è rotto, i camici bianchi e verdi ai letti dei pazienti che non mollano un istante.


Dentro un ospedale il mondo della Rianimazione assomiglia a una nave piena di tecnologie

e competenze umane che fa la spola tra la vita e la morte, cavalcando tempeste violentissime o planando su bonacce cariche di sole e profumo di salmastro.
Medici e infermieri sono i capitani coraggiosi che vanno fino in fondo quando arriva una persona in condizioni critiche, con o senza Covid-19.
Ora, l’emergenza dello stramaledetto virus stravolge anche il mondo della Terapia Intensiva, al punto da segnare una linea di confine tra il prima e il dopo Covid-19. Perchè niente sarà più come prima, anche qui.


Qui, dove Roberto Bindi gestisce 120 professionisti tra infermieri e operatori socio-sanitari, venti per turno distribuiti in cinque turni, organizza il lavoro di tutti, supporta tutti, risolve i problemi di tutti, studia e pianifica strategie insieme al direttore del Reparto, Marco Feri. Ospedale San Donato di Arezzo, Terapia Intensiva.
Ad oggi sono 13 i pazienti ricoverati nel mondo “surreale” oppure terribilmente reale della Rianimazione, ancor più ai tempi del coronavirus. Roberto è infermiere, coordinatore della Terapia Intensiva e ci tiene a sottolineare la differenza (vale per tutte le professioni) tra “essere infermiere” e “fare l’infermiere”. Lui ha scelto la prima versione e dopo vent’anni di attività clinica, Pronto Soccorso, 118, master di specializzazione, non è cambiato nulla, semmai la passione ha sedimentato, più in profondità.
Non potrebbe essere altrimenti e lo spiega così: “Ogni mattino mi sveglio alle 6,30, abito a Lucignano e in venti minuti sono al San Donato. Entro alle 8 e spesso esco alle 21, 22 o 23, a seconda delle necessità. Il nostro orario prevede 7 ore e dodici minuti, ma io non lo guardo; lascio il reparto quando so che è tutto a posto, quando gli infermieri non hanno più bisogno di me. Siamo in una guerra e si vince o si perde insieme. Se chiedo maggiore impegno agli infermieri, sarebbe ipocrita che proprio io fossi il primo a non dimostrarlo. La sera torno a casa distrutto, mi accorgo di essere stanco, lo stress fisico e mentale è alto per gli infermieri; io coordino attività e personale e ho un carico di pressione altrettanto importante. A volte neanche ceno; doccia e a letto, la mattina si ricomincia; ho il telefono sempre acceso e per ogni necessità in pochi minuti sono al lavoro”.
All’Università di Pisa erano pronti ad accoglierlo perchè lui fin da ragazzo voleva “essere” ingegnere meccanico e per ottimizzare la preparazione di base, avevano consigliato l’Istituto tecnico industriale anziché il liceo scientifico. E così è stato, ma poi è successo qualcosa che ha stravolto tutto e aperto una strada nuova: “Niente accade per caso: un amico mi fece conoscere il mondo dei volontari dell’ambulanza e lì è scoppiato l’amore. In quel momento ho deciso che non sarei stato più ingegnere meccanico ma infermiere”.
Università infermieristica, molti master di specializzazione, impegno sul campo al Pronto Soccorso dell’ospedale di Nottola (Montepulciano), a Poggibonsi, al 118 di Siena e quando ha vinto il primo concorso ha chiesto di essere destinato alla Rianimazione “perchè altamente formativa”.

Oggi Roberto, tra i tanti incarichi, vuole restituire quello che la professione gli ha dato

formando nuovi infermieri: è Professore a contratto all’Università degli Studi di Siena. Coordina la Rianimazione del San Donato dal 1 settembre 2019 e non si aspettava certo il “benvenuto” col coronavirus. Invece c’è dentro, insieme ai “suoi” infermieri: ha dovuto gestire velocemente la fase pre-allestimento del Reparto che da undici postazioni in condizioni normali, è passato a cinquanta, sale operatorie comprese; la fase attuale dell’emergenza (approvvigionamenti, turni, organizzazione, logistica) con tredici pazienti (ad oggi) e quella che seguirà, risolvendo le criticità di ogni professionista che si muove in questo mondo altalenante tra il ritorno alla vita e l’ultimo viaggio.

Le persone che arrivano da noi sono in condizioni gravi, spesso critiche, hanno bisogno di un supporto ventilatorio e cardio-circolatorio per consentire alle terapie di fare effetto. L’aspetto umano non è separato da quello tecnico: qui le persone sono nude perchè sono collegate a fili, cateteri e va garantita la massima manovrabilità; molti sono addormentati e intubati, altri sono svegli e indossano il casco con l’ossigeno per respirare, non possono muoversi e vedono le operazioni che gli infermieri fanno su ogni paziente molte volte nell’arco della giornata, ma vedono anche quando una persona muore. Tutti sono privati degli affetti e noi ce ne prendiamo cura come fossero i nostri familiari, perchè tutte le organizzazioni sono fatte di persone e se funzionano è proprio grazie alle persone: coi pazienti svegli non mancano sorrisi, battute, incoraggiamento, mentre per quelli che dormono ci sono carezze e la cura nei piccoli gesti come l’igiene personale; ogni mattina ai nostri malati facciamo il bagno a letto, laviamo gli occhi, provvediamo all’igiene orale, laviamo i capelli. E’ bello vedere come gli infermieri operano non perchè lo devono fare, ma perchè sentono di farlo col massimo rispetto e attenzione alla persona. Potrebbe esserci chiunque di noi in quei letti”.
I malati Covid non sono come tutti gli altri: “Ciascuno è un caso a sè; nelle situazioni più gravi è necessario praticare la pronosupinazione del paziente in coma farmacologico per far respirare meglio i polmoni e questa operazione va eseguita ogni otto ore. E’ una tecnica molto delicata considerando tubi e fili attorno al paziente, nella quale siamo diventati bravissimi e che ripetiamo dieci, dodici volte al giorno. Se all’inizio ci impiegavamo venti minuti a paziente, adesso gli infermieri la eseguono in modo naturale in cinque minuti. E’ un’esperienza umana e professionale molto intensa che unisce e consolida i rapporti: nel dottor Marco Feri che dirige il reparto ho trovato un alleato con cui lavoro in perfetta sintonia; insieme abbiamo studiato la situazione fin dal primo caso di Codogno e messo a punto la strategia per il reparto calibrata su tre pilastri: risorse umane, risorse tecnologiche, logistica. Grazie anche all’Azienda sanitaria siamo riusciti in 24 ore ad aprire 50 posti letto, disporre in campo infermieri e operatori socio-sanitari, persone eccezionali alle quali devo dire grazie: quando abbiamo spiegato la strategia operativa non ce n’è stato uno che si sia messo dalla parte del problema. Spontaneamente mi chiedono di rinunciare alle ferie e sono io, quando è possibile, a tenerle a casa per farle riposare. All’inizio abbiamo tutti vissuto la fase eroica, adesso la stanchezza comincia a farsi sentire, ma andiamo avanti nonostante la spada di Damocle sulla testa perchè non sappiamo se magari tra qualche ora i pazienti raddoppieranno, oltre al timore di ammalarsi di Covid, tutte le procedure per vestirsi con le tute e le protezioni ma anche svestirsi secondo un protocollo che non puoi permetterti di dimenticare. In più c’è il timore di essere un veicolo di trasmissione per i familiari e molti di noi vivono separati dalle famiglie”.


Medici e infermieri non hanno avuto un anno di tempo per prepararsi al Coronavirus, ma pochi giorni e “se finora è andato tutto bene, lo devo ai miei colleghi”. Roberto c’è per ciascuno di loro, ascolta, consiglia e “se fanno una domanda, devono uscire dalla mia stanza con la risposta”, esclama. L’Azienda ha offerto un servizio di supporto psicologico ma lui con orgoglio dice che “per il momento con la psicologa abbiamo concordato che non ce n’è bisogno”. Una volta a settimana la videoconferenza coi colleghi di tutti gli ospedali italiani e non solo è un momento fondamentale: confronto, scambio di dati e informazioni: “Ho fatto tesoro dei consigli dei cinesi ma anche dei colleghi di Lombardia e Veneto o altre regioni con cui siamo in contatto, perchè la criticità di uno può essere la risorsa di un altro e dunque condividiamo esperienze e risultati. Studiamo e affiniamo continuamente i protocolli per i pazienti Covid al punto che ormai siamo alla decima revisione. Eppoi ci sono i momenti belli in cui sentiamo l’affetto delle persone fuori dall’ospedale: aziende che fanno donazioni, chi ci regala la pizza o la pasticceria per la colazione”.
Ogni mattina quando arriva in ospedale, Roberto alza gli occhi agli striscioni appesi alle finestre con disegnato l’arcobaleno, i ‘grazie’ e la frase ‘andrà tutto bene’; sorride e pensa al nuovo giorno in trincea ma non si sente solo perchè quei disegni e quei colori aiutano, sono come carezze. Roberto non è “un eroe, sono solo una persona che fa con passione il suo lavoro; lo facevo prima del Covid e continuerò a farlo dopo; penso di parlare anche a nome dei colleghi perchè questa professione l’abbiamo scelta. Mi piacerebbe, però, che alla fine di tutto, non ci si dimenticasse di noi”.
Ci sono momenti della giornata in Terapia Intensiva che lasciano il segno: quando il malato esce dalla Rianimazione dopo aver lottato con la morte “per noi è una gratificazione; vuol dire che hai fatto bene il tuo lavoro e questo vale per medici, infermieri, manutentori, tecnici, addetti alle pulizie perchè si lavora in equipe e ognuno fa la sua parte”. L’opposto, quando una persona oltrepassa il confine della vita. Il Coronavirus ha chiuso la Rianimazione che prima, invece, era aperta ai familiari dei pazienti in determinate fasce orarie. “Questo provoca disagio nei parenti che cerchiamo di alleviare con videochiamate, ma non è la stessa cosa; io mi metto nei loro panni e comprendo sofferenza e frustrazione”.

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A Roberto il Covid-19 lascia la consapevolezza di essere entrati in una tempesta dalla quale usciremo cambiati: “Verseremo sangue e avremo cicatrici ma porteremo a casa anche cose positive e la principale è il rapporto tra le persone. Forse eravamo abituati a vivere in maniera troppo individualista; tutti presi dal lavoro e da mille impegni… Ora chi sta a casa – ed è importantissimo restarci rispettando le regole – avrà più tempo per riflettere sulla vita, gli affetti, le cose che contano davvero”.
Chiedo a Roberto qual è l’aspetto del suo lavoro che ama di più e lui non perde tempo: “Le persone!”. Come ogni volta durante l’attività professionale, dopo un intervento con il 118, in una notte in Pronto Soccorso o in Rianimazione, quando “senza peccare di presunzione, mi sono reso conto di aver fatto la differenza in un trauma da incidente stradale o in un arresto cardiaco, tra la vita e la morte”. Vent’anni dopo, non si occupa più dell’assistenza ai pazienti, ma assiste gli infermieri e continua ancora a fare avanti e indietro nella “terra di confine”.
Lucia

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